mercoledì 16 febbraio 2011

LA STORIA


Il Villino dei Gatti
 di Cecilia Gobbi

Ogni casa ha una sua storia e un suo destino, che dalle mura, dal pavimento e dal soffitto passa ai suoi abitanti, testimoni e al tempo stesso attori, di quel disegno originario, che io definirei divino.
Credo che il primo essere vivente che abbia varcato la soglia di questo villino sia stato un gatto. Ne sono certa perché questi animali abitano la mia casa come se ne fossero i proprietari da sempre. Guardando le foto di famiglia - e io ne ho tantissime, anche di molto molto vecchie perché i miei bisnonni e i miei nonni erano fotografi - si nota sempre la presenza felina. Che sia una foto scattata di sfuggita in giardino durante un pomeriggio d’estate, o nel salotto in una domenica di festa, perfino in quelle del pranzo di fidanzamento dei nonni, compare sempre un gatto. Talvolta è in braccio a uno degli umani, ma più spesso è una muta presenza, in un angolo a scrutare l’obiettivo, oppure a sonnecchiare ma con le orecchie allerta, indispettito dal trambusto e dalle voci “tutti in posa…fermi…ecco fatto!”. In altri scatti esce di scena e se ne vede solo la coda, oppure entra nell’inquadratura con il muso fiero. In ogni caso è sempre lì, con l’aria di uno che vuole restare: gli umani torneranno alle loro attività, gli umani passeranno, partiranno, moriranno, ma lui, o un altro come lui, loro, ci saranno sempre.
Mi piace immaginare Monteverde vecchio in un tiepido pomeriggio autunnale degli anni Venti del Novecento. Pochi villini nuovi di zecca, allineati come soldatini a fare bella mostra di sé, svettavano in quel tempo tra il verde un po’ incolto, gli alberi e l’erba che era stata tagliata da poco per fare posto a strade e marciapiedi. Qualche via risaliva la collina fino al Gianicolo, dove la statua di Garibaldi, quasi nuova, osservava il Cupolone con pensieroso rammarico.
In quel giorno di più di ottanta anni fa, la fila dei villini sul lato destro di via Daniello Bartoli affacciava su un prato che in lontananza scendeva verso l’antica via Portuense; nella luce arancione del pomeriggio, il quartiere era immerso in un silenzio quasi irreale.
Gli operai che avevano lavorato tutto il giorno alle rifiniture - porte e finestre tutte uguali per quelle casette economiche in un quartiere di semiperiferia - erano andati via da un po’, per le strade si aggirava solo qualche curioso, possibile acquirente che sognava una casa nuova e di proprietà, una vita serena negli anni della grande depressione.
Il ponentino soffiava sollevando un po’ di polvere del cantiere, non c’era nessuno…ma qualcosa si muoveva tra l’erba. Era un gatto, che essendo un gatto degli anni Venti di Monteverde vecchio credo fosse necessariamente selvaggio e non troppo grasso, anzi me lo immagino decisamente magro e alla perenne ricerca di cibo.
Tutti i villini avevano un piccolo giardino sul davanti, il micio li attraversava uno ad uno, cercando un odore commestibile, aveva appena fiutato un topo e l’aveva seguito quatto quatto per un po’. Come ogni felino, anche questo gatto era assai curioso e con il muso schiacciato a terra proprio non poteva camminare spedito, erano mille i profumi che sentiva: l’erba appena tagliata, la bava delle lumache notturne, una briciola di pane e un pezzetto di formaggio che dovevano essere caduti da un panino e… di qua cosa c’è?
Mentre il topolino era già lontano, il gatto sentì qualcosa che lo attirò, come una vibrazione proveniente dal suo piccolo cuore, che cresceva a poco a poco mentre lui si avvicinava a una porta che sembrava chiusa, ma non lo era. Un’occasione imperdibile si presentava a quella bestiola: sbirciare in un posto nuovo. Furono sufficienti una piccola spinta con la testa - le orecchie basse - e un’occhiata furtiva per assicurarsi che non ci fossero pericoli, giusto pochi secondi perché le pupille si dilatassero a catturare tutta la luce che entrava dalle fessure delle persiane chiuse. Poi la porta si aprì un pochino di più per far passare le spalle e si richiuse, infine, quando la coda fu ormai entrata seguendo, elegante, il corpo. Il micio era ora in un posto mai usato, che odorava di vernice e di legno, di calce e di scarponi vecchi da operaio … ci sarà qualcosa da mangiare?“Elvira che ne dici di questa? La posizione centrale direi che è la migliore, ti piace?”
“Signor Rinaldi non perda tempo, che le stiamo già vendendo tutte!”
La giovane donna bruna, minuta come Coco Chanel, entrò nel villino lasciandosi dietro quelle voci.
Erano venuti qui in cerca di una casa nuova da comprare, lo studio fotografico andava bene e con i soldi messi da parte suo marito Luca voleva acquistare una casa che fosse nuova, grande e soprattutto…tutta loro. Ma questa zona a lei proprio non piaceva: Monteverde era molto diverso da Borgo Pio, dove abitavano in una casa grande, ma in affitto. Lì c’era la vita: le bambine andavano a scuola da sole, a piedi, mentre lei le guardava dal balcone e San Pietro le proteggeva; la gente faceva su e giù in strada e lei, quando si occupava della casa, poteva sentire il vociare dei vicini e il rumore delle ruote dei carri, perfino qualche automobile. Quassù invece non c’era quasi nessuno e il silenzio era simile a quello che aveva ascoltato da piccola, quando accompagnava il nonno nella vigna, in campagna.
“Allora Elvira, la prendiamo? Cresceranno qui le bambine?”
Elvira si girò a guardare, oltre la porta d’ingresso, il grande prato spoglio e desolato di fronte al giardino: non c’era anima viva, non si sentiva alcun suono provenire dall’esterno. Sapeva già qual’era la risposta da dare al marito. Aveva fatto solo pochi passi all’interno della casa, bastava ripercorrerli per uscire per sempre.
Ma poi qualcosa d’impercettibile la turbò, una strana vibrazione nel suo cuore precedette di un attimo un leggero contatto fisico sulla sua gamba sinistra, proprio tra lo stivaletto e il polpaccio, sentì in quell’istante qualcosa di irreale, di spirituale, come un invito a restare che sapeva di casa. Abbassò lo sguardo: un gatto dal musetto vispo bianco e nero, con lunghissime vibrisse bianche, la stava fissando, mentre con il corpo snello si attorcigliava sinuoso alla sua gamba.
Non si spaventò, non si stupì nemmeno, era un incontro annunciato. In un attimo vide quella casa vuota inondata di luce, sentì lo scalpiccio dei piedini nudi delle bambine sui pavimenti di marmo, lanciate in un’allegra corsa, udì l’acqua gorgogliare nella fontana in giardino e le sembrò che l’odore dei suoi biscotti provenisse dalla cucina riempiendole le narici, intuì giorni, mesi e anni di vita vera….
Il “” rivolto al marito le uscì dalla gola ancor prima che potesse rendersene conto.
Lo spirito della casa aveva deciso.

Elvira era la mia bisnonna, visse in questa casa fino a 90 anni, la sua primogenita Anna era la madre di mia madre, io e i miei 7 gatti viviamo ancora nel suo villino, i miei libri di archeologia sono cucce, la mia libreria un nascondiglio molto ambito.







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